Filogeneticamente il dolore ha permesso la nostra sopravvivenza come specie, in quanto è quella sensazione che ci permette di togliere il nostro corpo da uno stato dannoso, pericoloso o di disequilibrio. Basti pensare a cosa succederebbe se, dopo aver messo una mano sul fuoco, non sentissimo dolore. Probabilmente non ci accorgeremmo della situazione di pericolo e dopo pochi

minuti verremmo carbonizzati. Se vogliamo essere meno drammatici, immaginiamo di essere nel bel mezzo di una corsa, quando ad un certo punto a causa del terreno dissestato prendiamo una distorsione. In questo caso, il dolore ci permette di capire che forse è il caso di smettere di correre, e ci costringe a zoppicare lentamente fino a casa. Senza questa limitazione forzata, ci ritroveremmo a correre per altri chilometri lesionando gravemente, e forse in modo permanente la nostra articolazione. Uno scenario del genere lascia facilmente intuire come la nostra estinzione si concretizzerebbe in pochi decenni. Per questo motivo ascoltare il nostro dolore è un’abilità importante da acquisire, oltre che accettarlo e agire di conseguenza. Tornando all’esempio della distorsione, se noi assumessimo un antidolorifico per poter correre ancora il giorno successivo, di nuovo andremmo a mettere in pericolo il nostro organismo e la sua funzionalità.

L’importanza ontogenetica del dolore si può riscontrare se pensiamo a come il bambino inizialmente non ha paura di farsi male, corre in modo spericolato sfiorando pericolosamente spigoli e rischiando rovinose cadute. Soltanto con l’esperienza del dolore si inizia a temere di farsi male, imparando ad esempio che la testa è delicata e che bisogna stare attenti a non sbattere troppo forte, o che se la pancia fa male bisogna smettere di mangiare le caramelle o il cioccolato, e così via.

Facciamo inoltre esperienza di sofferenza fin dal primo secondo di vita. Quando veniamo al mondo il pianto è l’unico strumento che abbiamo per comunicare e, nella fattispecie, ciò che il neonato comunica è uno stato di insofferenza: la fame e le coliche ne sono due esempi lampanti. Manifestando il dolore, il bambino ottiene quello che gli serve per sopravvivere e recupera così l’omeostasi.

È quindi il dolore che ci dà dei feedback molto chiari su cosa ci permette di vivere e cosa può portarci a morire. Per questo motivo non è né utile né consigliabile cercare delle tecniche per raggiungere l’analgesia totale.

Purtroppo però il dolore non è sempre utile alla sopravvivenza, anzi ci sono delle circostanze in cui diventa un sintomo o una patologia.

Nel prossimo articolo verrà meglio affrontata questa condizione patologica di dolore.

 

 

© Copyright | Dott.ssa Elisa Brembilla

Psicologa, Mindfulness educator, Specializzanda in psicoterapia sistemico-relazionale.