Per cominciare a parlare di questo tema, è necessario porre un punto di partenza da cui non si può prescindere: il dolore è una dimensione che fa parte dell’esperienza umana e perciò non è possibile eliminarlo totalmente dalla nostra esistenza. Oltre a non essere possibile, eliminarlo è anche contrario al processo di evoluzione. Ha quindi una funzione fondante sia dal punto di vista filogenetico, per l’evoluzione della specie, che ontogenetico, per l’evoluzione dell’individuo – ma questo lo vedremo tra poco.

Possiamo considerarci nell’era delle rivoluzioni mediche. Ogni anno vengono scoperte nuove cure o nuove tecnologie, che consentono a pazienti con malattie neurodegerative o autoimmuni di convivere con la propria condizione, aiutandoli a condurre una vita che somigli il più possibile ad un’esistenza dignitosa.  Questo è possibile quando il disagio ha basi organiche, più o meno rintracciabili. In questi casi, si può intervenire in qualche modo su di esse, andando a ridurre la sofferenza dove è possibile.

C’è però ancora una condizione che è rimasta molto nebbiosa e che, a parere di chi scrive, è ancora troppo poco considerata: il dolore, e ancora di più quello “cronico”. Quando si utilizza il termine “cronico” non si vuole intendere una malattia senza cura e tanto meno si vuole abbattere la speranza di chi, da molti anni, si trova a vivere quasi perennemente nel dolore; infatti vi è sicuramente la possibilità di venire a capo delle sue enigmatiche cause e, continuo a sostenere, di ridurre la condizione di sofferenza anche attraverso interventi d’equipe multiprofessionali altamente specializzati.