La meditazione nella pratica terapeutica

Sempre più spesso il tema della consapevolezza di sé è centrale nei discorsi e nelle pratiche terapeutiche. La persona che si rivolge allo specialista è invitata dal professionista stesso ad approfondire la conoscenza di sè in ogni ambito della vita quotidiana, e non limitatamente all’interno del setting protetto offerto dal terapeuta. Il colloquio terapeutico è, in realtà, una piccola bolla all’interno dell’esistenza dell’individuo, e il rischio è quello di trasformare l’incontro con il terapeuta da occasione di crescita a evento limitato nel tempo, in cui la persona si riduce a scoprire sé stessa solo nello studio del terapeuta stesso, lasciando lì ogni dubbio o domanda di sorta dai quali invece sarebbe utile farsi accompagnare in ogni ambito della vita quotidiana, per conoscere e scoprire “in diretta” i propri comportamenti automatici. Tali automatismi non sono altro che comportamenti e percezioni di sé e degli altri (spesso carichi di giudizi) appresi in situazioni di emergenza e che al momento attuale, nonostante non siano più validi né utili, continuiamo inconsapevolmente a mettere in atto. Ad esempio, all’interno di un contesto familiare con una madre gravemente depressa e un padre quasi totalmente assente, il figlio potrebbe essere portato a limitare l’espressione dei propri sentimenti, cercando in ogni modo di non creare alcun tipo di problema alla madre, già “carica di guai”, e calandosi con tutto sé stesso nel ruolo del cosiddetto “bravo ragazzo”. Col tempo, si potrebbe verificare una sorta di “accumulo” di sentimenti, idee e pensieri inespressi e considerati, in maniera inevitabilmente giudicante, “proibiti” e “cattivi”, che si traducono in segnali (o sintomi, se vogliamo usare un termine più prettamente medico) tanto corporei (emicranie, acidità di stomaco, dolore alle spalle e al collo) quanto mentali (autosvalutazione e giudizio, difficoltà nel manifestare sentimenti rabbiosi, sbalzi di umore).

La conoscenza di sé, quindi, passa inevitabilmente dalla presa di consapevolezza di questi automatismi. La domanda centrale non è tanto “Perché provo questi sentimenti e queste sensazioni?” quanto “Che cosa sto provando in questo momento?”. I sentimenti spesso sono confusi, non chiari e ci lasciano interdetti, in una sorta di limbo tra ciò che proviamo e ciò che pensiamo di provare. La consapevolezza di sé non può prescindere dalla consapevolezza per il momento presente, così spesso sottovalutato a favore di ciò che è stato e di ciò che sarà, entrambi aspetti sui quali non si può agire, in quanto il passato è espressione di ciò che è stato e non sarà più, e il futuro di ciò che ancora non è. Focalizzarsi solo sul passato piuttosto che sul futuro non è altro che una sorta di fuga in avanti (o all’indietro) per scappare dal momento presente, l’unico realmente esistente.